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05 Maggio 2005

Ricky

Avevo un amico, che era uno forte. Lo dico subito, dico “aveva” perchè non c’è più, era uno di montagna e ha pensato bene di prendere dritto un tornante dopo una serata delle sue, che era poi una delle nostre solo che quella volta lì non c’ero, e l’han tirato su che non era mica facile capire chi era, m’han detto. C’era rimasto poco della macchina e poco di lui, l’avran riconosciuto dalla targa, o un qualche tatuaggio.
L’avevo conosciuto che era estate, eravam ragazzini: cazzo aveva una vespa che non potevi non farci amicizia. Cioè, in teoria sì, potevi provare un po’ di compassione, che era così bardata che sembrava l’Enterprise, e far finta di niente, ma io una vespa così non l’avevo mai vista e avevo deciso di farci amicizia. Era uno di montagna, del posto dove andavo d’estate: io le estati della mia adolescenza, per copa di una varicella, le ho passate tutte in montagna, appennino reggiano, un paesino di neanche 10 anime d’inverno, d’estate un centinaio.
Avevamo fatto amicizia da poco e avevamo scoperto che ci piaceva a tutti e due la stessa ragazza: ne avevamo parlato, senza tanti giri di parole, e ne avevamo concluso di lasciar andare le cose per i fatti loro, e quel che succedeva succedeva e per accordo nessuno si sarebbe dovuto dispiacere della propria “sconfitta”. Poi alla fine di quell’estate lei mi aveva detto che le piacevo io, ma per non far dispiacere a lui s’era messa con un terzo. L’ho raccontato subito a lui, e ne avevamo riso un bel po’, incoscienti di come quella fosse la prima volta che avevamo a che fare col distorto modo di pensare di talune femmine, che in futuro avrebbero poi cercato di rivenderci, con una geniale strategia di marketing, dietro l’etichetta di “misterioso universo femminile”.

Anche la prima canna me l’ero fumata con lui: aveva dei giri suoi ed era riuscito da avere un po’ di quella specie di pongo marrone. Sapeva lui come si facevan quelle cose e io stavo solo lì attento e ammirato da tanta destrezza nel riscaldo e nel rollo. Scoprimmo dopo pochi tiri essere roba poco buona: “merda, è paraffa” ripeteva, e non capivo cosa volesse dire, avevo solo una gran voglia di vomitare. Ricordo che voltavo la testa e tutto arrivava dopo un po’. Eravamo nascosti in un campo in discesa (eh, eravamo in montagna, per forza che era in discesa) e ci mettemmo un buon tre ore a riprenderci.
Aveva sempre il chiodo addosso, anche a ferragosto, e un paio di stivalozzi neri di pelle, sempre a ferragosto. La nostra canzone era “I ribelli della montagna”, un canto partigiano scritto tra liguria e piemonte durante la seconda guerra: nel bisogno di ribellione della nostra adolescenza, e coi posti di montagna che avevamo attorno, le parole del ritornello di quella canzone ce le sentivamo addosso come una canottiera.
Era uno che si faceva i tatuaggi da solo: prendeva un ago, lo arrotolava con del filo lasciandone scoperta solo la punta e lo intingeva nella china. E si sforellava la pelle. Si faceva delle robe orrende, tipo scritte “fuck the world” o lapidi. Lo sapeva che non mi piacevano granchè: lui non m’ha mai chiesto di farmene uno e io non gli ho mai detto che eran proprio brutti.
Andavamo anche a ballare insieme, che sì ok fare i ribelli e i selvatici, ma un po’ di ragazzette in ghingheri da vedere e magari agganciare non ci facevan schifo, quindi si partiva con la sua vespa-astronave e io seduto dietro e si andava in un locale che era di giorno piscina e di sera discoteca a filtrare della gran birra e dei gran coca e rum, a fare i bulli appoggiati a un muretto e a scuotere le teste a ritmo quando il diggei metteva Roadhouse Blues. All night long.
Poi d’estate ho iniziato ad andare al mare con altri amici e la montagna l’ho mollata, e con la montagna ho perso di vista anche lui. Immagino ci sia rimasto un po’ male l’estate che non m’ha visto: non ci sentivamo mai durante l’anno, sapevamo che ci saremmo incontrati d’estate senza bisogno di appuntamenti telefonati, e quindi il non presentarmi immagino l’abbia preso un po’ come un bidone.
Per vie traverse, anno dopo anno, sapevo delle brutte compagnie che frequentava, del fatto che peggiorava, del fatto che s’era ripreso e che s’era messo un po’ a posto.
Poi agli inizi di maggio di qualche anno fa m’ha chiamato quella che piaceva a tutti e due, e m’ha detto dell’incidente e del funerale già fatto. Ricordo che m’è venuto in mente quando prendeva sempre il caffè, che lo voleva sempre dolcissimo “che di amaro c’è già la vita”, diceva, e lì per lì ho pensato che forse non aveva poi tutti i torti. Era la prima volta che moriva qualcuno che conoscevo bene, faceva un effetto strano, più che altro era la novità di una cosa così definitiva a lasciarmi senza parole. Poi un po’ ci si abitua e i ricordi son sempre qualcosa.
Ecco perchè mi arrabbio quando mi accorgo di avere poca memoria, o di dimenticarmi le cose, e non mi piace neanche tanto scherzarci su: quando ti restano solo i ricordi poi vien paura di perdere anche quelli.